Le patologie autoimmuni rappresentano la terza causa di morbilità nei paesi industrializzati e una delle principali cause di morte nelle donne. Si tratta di patologie croniche, la cui prevalenza aumenta con l’età e con un importante impatto sociale ed economico.
La vitamina D e gli acidi grassi omega 3 a catena lunga sono considerati potenziali trattamenti delle patologie autoimmuni per il loro ruolo immuno-modulatorio.
E’ noto infatti come la 1,25-diidrossivitamina D, la forma attiva della vitamina D, eserciti attività immunologiche su molteplici componenti del sistema immunitario innato e adattativo, nonché sulla stabilità della membrana endoteliale. Studi recenti hanno dimostrato un’associazione tra bassi livelli di 25-idrossivitamina D sierica e aumento del rischio di sviluppare diverse malattie e disturbi immuno-correlati, tra cui psoriasi, diabete di tipo 1, sclerosi multipla, artrite reumatoide, tubercolosi, sepsi, infezioni respiratorie e COVID-19. Di conseguenza, sono stati condotti numerosi studi clinici volti a indagare l’efficacia della somministrazione della vitamina D e dei suoi metaboliti per il trattamento di queste patologie con risultati ad oggi contrastanti.
Per quanto riguarda gli acidi grassi omega 3, studi osservazionali hanno dimostrato una riduzione del rischio di artrite reumatoide con l’aumento del loro introito giornaliero. Tuttavia mancano trials randomizzati che dimostrino l’associazione tra la loro supplementazione e le patologie autoimmuni.
Un recente lavoro pubblicato sul British Medical Journal ha indagato gli effetti della supplementazione con vitamina D e acidi grassi omega 3 sull’incidenza di malattie autoimmuni (artrite reumatoide, polimialgia reumatica, malattie tiroidee autoimmuni e psoriasi), dimostrandone l’efficacia nella riduzione del rischio.
Punto di forza è sicuramente il disegno dello studio. Si tratta infatti di uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco, su un ampio campione di popolazione adulta-anziana. Si rendono tuttavia necessari ulteriori studi per valutarne l’efficacia su una popolazione più giovane, in soggetti a più alto rischio di patologie autoimmuni e considerando un follow up più lungo.
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