Pur essendoci in letteratura numerosi lavori che supportano l’associazione tra ipovitaminosi D e infezione da SARS-CoV-2 e che suggeriscono un possibile ruolo della supplementazione vitaminica D sulla prognosi dei pazienti ricoverati per COVID-19, ad oggi il beneficio del trattamento con vitamina D rimane speculativo e parzialmente supportato da studi osservazionali e da pochi trials clinici.
In particolare non è stato ancora confermato l’impatto della supplementazione vitaminica D sugli outcomes clinici di soggetti anziani fragili con malattie concomitanti, che sono a più alto rischio di esiti clinici severi. A ciò si aggiunge che gli studi ad oggi disponibili sono gravati da una serie di limitazioni, quali la bassa dose di vitamina D somministrata (vedi il lavoro già commentato di Annweiler e coll. in cui i pazienti sono stati trattati con una singola dose di 80.000 UI di vitamina D), i livelli sierici basali di vitamina D (vedi il più recente lavoro pubblicato su JAMA di Murai e coll.) e le caratteristiche del paziente che possono precludere la possibilità di osservare un effetto misurabile del trattamento.
Uno studio randomizzato e controllato di qualche anno fa aveva dimostrato come alte dosi di vitamina D (500.000 UI) riducessero la mortalità intraospedaliera in pazienti critici con grave deficit vitaminico D. Tuttavia pochi studi hanno indagato l’effetto di alte dosi di vitamina D in pazienti anziani fragili con infezione COVID-19.
A questo riguardo un recente lavoro di Giannini e coll. ha indagato retrospettivamente l’effetto della supplementazione con colecalciferolo ad alte dosi sull’outcome combinato “trasferimento in terapia intensiva e/o morte” in una coorte di pazienti anziani fragili con infezione COVID-19. Gli stessi autori hanno valutato se tale effetto potesse essere modificato dal peso delle comorbidità. Il lavoro, pur con i limiti legati alla sua natura osservazionale e al numero di pazienti inclusi, dimostra come alte dosi di vitamina D siano in grado di migliorare l’outcome clinico in questa categoria di pazienti fragili e comorbidi. Inoltre il peso delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) amplifica in modo ampiamente significativo il potenziale effetto protettivo della vitamina D in questi pazienti. Studi randomizzati e controllati si rendono necessari per confermare tale ipotesi.