E’ quello che ci viene ricordato dallo studio sotto riportato e pubblicato sulla rivista Bone nelle ultime settimane.
L’anemia da carenza di ferro è un problema estremamente comune nella popolazione generale. Il suo trattamento ha finora previsto supplementazione orale (che tuttavia è poco tollerata a livello gastrointestinale) o endovenosa (con formulazioni tradizionali che prevedevano infusioni multiple e spesso gravate da reazioni di tipo allergico). Negli ultimi anni si è reso disponibile il carbossimaltosio ferrico che consente di fornire in un breve intervallo di tempo e con un numero minimo di infusioni, grandi quantità di ferro elementare. La maggiore maneggevolezza del farmaco ne ha favorito l’uso in vaste coorti di pazienti.
L’ipofosfatemia indotta da ferro è un effetto collaterale ben documentato. Tuttavia nella maggior parte degli studi viene valutato l’effetto dopo una singola somministrazione del farmaco e in questi casi le diminuzioni transitorie delle concentrazioni plasmatiche di fosfato sono risultate asintomatiche e completamente reversibili. L’esposizione al farmaco di popolazioni molto più ampie ed eterogenee rispetto agli studi registrativi ha portato ad un numero crescente di case report e serie di casi che segnalavano lo sviluppo in alcuni pazienti di ipofosfatemia grave e sintomatica. Le complicanze a lungo termine dell’ipofosfatemia comprendono l’osteomalacia e le fratture ossee, che devono essere prese in seria considerazione soprattutto nei pazienti che vanno incontro a somministrazioni endovenose ripetute.
La causa di questa variazione dei livelli di fosfato è da ricercarsi nell’effetto del carbossimaltosio ferrico sul bilancio tra produzione e eliminazione del FGF23 (il carbossimaltosio ferrico favorisce l’incremento come confermato anche in questo studio dei livelli di FGF23). L’FGF23 a sua volta riduce i livelli ematici di fosfato favorendone l’escrezione renale e inibendo la produzione di 1-25 (OH)2 vitamina D con conseguente deviazione verso possibili quadri osteomalacici.
Nello studio esaminato, peraltro condotto in un numero piuttosto esiguo di pazienti, l’87,5% dei partecipanti ha sviluppato un’ipofosfatemia intendendo con questo il riscontro di livelli ematici < 2.5 mg/dL. Nel 57% di questi l’ipofosfatemia è risultata prolungata nel tempo. Nel 28% dei casi i livelli ematici di fosfati sono risultati < 1 mg/dL: questi pazienti sono stati supplementati secondo il protocollo di studio e non hanno sviluppato sintomi.
In conclusione la terapia con carbossimaltosio ferrico può determinare un quadro di ipofosfatemia in una grandissima percentuale di pazienti. Questo fenomeno può essere del tutto asintomatico e transitorio ma in alcuni casi (soprattutto in chi sottoposto a infusioni ripetute) può essere severo e complicarsi con quadri clinici da osteomalacia che necessitano di trattamento specifico. Nella pratica clinica quotidiana è importante considerare la supplementazione con carbossimaltosio ferrico come possibile causa di ipofosfatemia e cominciare a valutare la fosfatemia nei pazienti che assumono questa terapia pur sapendo che la completa normalizzazione dei livelli ematici può verificarsi anche dopo 3-4 mesi dall’infusione. Resta ancora da definire in maniera univoca quale sia la soglia di intervento e quale sia il trattamento più adeguato.
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