Lo dice questo studio recentemente pubblicato su osteoporosis international in cui un gruppo di circa 150 donne con fratture di vertebra da osteoporosi sono state randomizzate ad associare o meno un programma di esercizio fisico multimodale gestito da un fisioterapista per un periodo di 12 settimane.
Lo studio non ha raggiunto l’obiettivo primario (valutazione della velocità di camminata abituale) ma ha evidenziato un effetto positivo su alcuni parametri che meritano la nostra attenzione.
L’esercizio fisico guidato ha permesso infatti di migliorare la capacità di equilibrio e la paura di cadere nei pazienti che sono stati assegnati (mediante attribuzione di codice numerico computerizzato) al braccio attivo dello studio.
Questo è un elemento di non poco conto.
Esistono infatti pochi studi randomizzati e controllati che abbiano valutato l’effetto dell’esercizio fisico nell’osteoporosi e ancor meno nei pazienti con fratture vertebrali. I risultati di questi studi non sono stati univoci. I pazienti con fratture vertebrali tendono a cadere di più, ad aver paura di cadere e a presentare una qualità di vita inferiore rispetto ai non fratturati per l’immobilità e la tendenza ad isolarsi ed auto-escludersi dalla vita sociale e di relazione. Questo studio dimostra come un adeguato esercizio fisico sia in grado di controvertere questa tendenza.
Il programma proposto prevedeva un trattamento di gruppo due volte a settimana della durata di 1 ora ciascuno, durante il quale venivano proposti una serie di esercizi a rotazione, potenziati man mano che il soggetto raggiungeva un determinato valore soglia. L’aderenza al programma terapeutico è risultata buona. Il 75% delle donne ha infatti partecipato ad oltre l’80% delle sedute. Sarebbe interessante sapere se un trattamento più frequente o un proseguimento del programma fisico oltre le 12 settimane sia in grado di determinare un miglioramento anche di altri parametri o un’entità maggiore dei risultati già documentati. E’ infatti noto come l’effetto dell’esercizio fisico sia sull’osso che sulla muscolatura si verifichi solamente mentre viene proseguita.
Da sottolineare come tra i criteri di inclusione dello studio ci fosse la capacità di deambulare autonomamente seppur con la possibilità di utilizzare un ausilio. Questo significa che il risultato potrebbe essere differente se si considerasse una popolazione con un grado maggiore di disabilità. L’aver scelto una popolazione con buona capacità di recupero (e quindi con appiattimento della differenza tra i gruppi) viene imputata dagli autori come la motivazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo primario del lavoro.
Un altro dei limiti dello studio è che non è stato registrato il numero delle cadute che si sono verificate nel gruppo di controllo. Questo non consente di dire se sia migliorata solo la percezione del paziente (la paura di cadere) o se questo miglioramento soggettivo abbia anche comportato una riduzione significativa del numero di cadute.
Lo studio evidenzia infine il ruolo del fisioterapista nella gestione del paziente osteoporotico. Tuttavia ad oggi nelle nostre realtà l’accesso alle strutture riabilitative è ancora difficile (soprattutto se si considerano gli interventi a carico del SSN) e perlopiù limitato ai soggetti con frattura di femore.
Ci viene peraltro ricordato come l’osteoporosi sia una patologia multidisciplinare e come un approccio combinato (farmacologico e non) che comprenda anche un esercizio fisico preferibilmente guidato rappresenti la strategia vincente per un miglior outcome di malattia.
