Come sarebbe stata la vita di Beethoven se fosse nato in questo secolo?
E’ quello che viene da chiedersi leggendo l’articolo di Ralston pubblicato sulla rivista Bone di questo mese sulla gestione con bisfosfonati della malattia di Paget da cui il celebre compositore era affetto.
L’articolo riassume le evidenze della letteratura sull’uso dei bisfosfonati dall’inizio del loro utilizzo clinico negli anni ’70 fino agli ultimissimi studi ancora in corso. L’autore ripercorre la storia dei primi bisfosfonati quali l’etidronato, il tiludronato e il clodronato, farmaci oramai abbandonati nella terapia del Paget, proseguendo poi con bisfosfonati più potenti e di più ampio uso quali risedronato, pamidronato, neridronato, alendronato e zoledronato.
Molti i take home messages di questo lavoro:
-il primo, clinicamente rilevante, è che il dolore pagetico non è sempre legato all’attività metabolica dell’osso. Diversi studi hanno infatti evidenziato come non solo la presenza ma anche l’intensità della sintomatologia dolorosa a carico dei segmenti affetti non siano indissolubilmente legate alla attività metabolica ossea. Questo genera un gap tra la clinica da un lato e gli outcome usati nella maggior parte degli studi sulla malattia di Paget dall’altra.
-il secondo, altrettanto importante, è quale sia il vero target della terapia. Negli studi registrativi l’outcome di efficacia viene sostanzialmente limitato alla normalizzazione dei markers di turnover osseo nel breve-medio termine. Di maggior impatto invece per il paziente sarebbero la qualità di vita, la presenza del dolore e la sua intensità, la progressione delle lesioni strutturali e le eventuali complicanze della malattia nel lungo termine
-il terzo messaggio chiave riguarda il plus nell’utilizzo dello zoledronato rispetto agli altri bisfosfonati. Lo zoledronato infatti avrebbe una capacità di normalizzare gli indici di turnover osseo simile ad altre molecole, tuttavia per le sue maggior potenza, affinità per i cristalli di idrossiapatite e caratteristiche farmacodinamiche avrebbe un effetto più duraturo nel tempo che potrebbe spiegare tra l’altro l’effetto sul dolore e sulla qualità di vita superiore ad altri bisfosfonati documentato recentemente in letteratura.
– Infine il paper riporta i dati dell’ampio studio PRISM che ha cercato di dare una risposta se fare il follow-up e definire il ritrattamento sulla base degli indici di turnover osseo o sulla base dei sintomi del paziente. Il trial confrontava infatti due gruppi di trattamento: un gruppo con terapia anti-riassorbitiva con cadenza basata su un controllo stringente (“intensivo”) dei parametri di turnover come la fosfatasi alcalina e un gruppo con cadenza della terapia basata sui sintomi. Lo studio non ha mostrato alcuna differenza significativa in termini di dolore, qualità di vita, fratture o interventi ortopedici . Era invece presente un trend non significativo per gli eventi avversi nel gruppo “intensivo”. Questo indicherebbe quindi come più appropriata una gestione della terapia basata sui sintomi del paziente
I maggiori limiti, che vengono puntualmente sottolineati dall’autore, degli studi condotti sulla malattia di Paget nei decenni scorsi sono la scarsa numerosità campionaria in molte casistiche ma soprattutto la esigua durata degli studi che non permette di catturare l’efficacia su parametri differenti dagli indici laboratoristici o di long term e di fornire un quadro di safety completo.
L’approccio terapeutico della malattia di Paget ma anche e soprattutto (ad avviso di chi scrive) diagnostico potrebbe in realtà essere profondamente modificato alla fine di quest’anno quando è prevista la pubblicazione di un altro articolo descritto nel paper di Ralston che ha voluto valutare gli effetti di un trattamento precoce rispetto ad uno tardivo ed addirittura di una terapia preventiva nei soggetti asintomatici portatori di mutazione genetica sul decorso della malattia.
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