Lo si evince dallo studio dei colleghi norvegesi che ci ricordano in primis come anche le fratture non vertebrali e non femorali abbiano una rilevanza notevole sul rischio di altri eventi da fragilità ma soprattutto evidenziano come queste possano associarsi ad un aumento della mortalità nei soggetti anziani.
Le fratture periferiche non costituirebbero quindi solo un campanello di allarme indicativo di fragilità sistemica ma assumerebbero un ruolo determinante sulla quantità di vita dei nostri pazienti.
Questa informazione ha particolare rilievo se consideriamo che le fratture non vertebrali e non femorali in realtà costituiscono prese nel loro insieme il numero maggiore di eventi da fragilità che si verificano nei soggetti sopra i 50 anni.
I dati emergono da uno studio di coorte che però ha il vantaggio di aver seguito prospetticamente un ampio gruppo di soggetti per un lungo periodo di tempo (in media 11 anni) e di aver arruolato tutti i pazienti con fratture periferiche che si sono verificate nell’arco di tempo dell’osservazione
Sono state considerate solo le fratture da fragilità (traumi minimi e/o caduta dalla propria altezza) e sono state distinte le fratture prossimali (ad esempio pelvi, omero, clavicola, coste e sterno) da quelle distali (ad esempio radio, ulna, tibia, perone, mani e piedi con l’esclusione delle dita).
Questi, a detta della scrivente, i punti di riflessione su questo articolo:
-le fratture non vertebrali e non femorali prossimali si associano anch’esse ad un incremento della mortalità (non le distali). Per avere un’idea del peso del problema, è stato stimato che l’impatto di una frattura sulla mortalità sia maggiore dell’effetto del fumo sulla mortalità cardiovascolare e dovuta a neoplasia polmonare
-si conferma anche per le fratture non vertebrali e non femorali che gli uomini hanno un tasso di mortalità superiore alle donne per ogni tipo di frattura
-la mortalità è maggiore (sia per chi dopo l’evento indice non ha avuto eventi fratturativi successivi sia per chi li ha avuti) nei soggetti più anziani, con maggior comorbilità e cattivo stato di salute
-la mortalità risulta aumentata per ogni tipo di frattura e per entrambi i generi fino ai 5 anni dopo l’evento e risulta decisamente maggiore nel primo anno con un tasso annualizzato corretto per età di morte che è più alto per le fratture di femore, seguito dalle fratture non vertebrali e non femorali prossimali e infine da quelle distali.
-nelle donne è stato osservato come una frattura successiva alla prima si associ ad un ulteriore aumento della mortalità. Lo stesso dato non è stato osservato nella popolazione maschile ma in questo caso il numero degli eventi registrati è risultato inferiore, senza una numerosità tale da poter avere una potenza statistica adeguata
-essere sposati, fare esercizio fisico ed avere un buon livello di istruzione risulta essere protettivo sul rischio di mortalità
La natura stessa dello studio fa sì che questo lavoro abbia ovviamente dei limiti. Non è infatti possibile ad esempio chiarire quale sia il meccanismo che soggiace all’aumento della mortalità dopo frattura periferica. In letteratura risulta infatti controverso il ruolo delle comorbilità e soprattutto delle diverse patologie presenti. Inoltre in questa casistica non è stata registrata e valutata la presenza di cedimenti vertebrali che potrebbero concorrere da un lato ad aumentare il rischio di nuove fratture, dall’altro contribuire all’aumento di mortalità. Non di poco conto è infine il fatto che non è noto l’eventuale trattamento farmacologico assunto dai pazienti che potrebbe interferire sull’outcome fratturativo ma anche su quello di mortalità. Esistono infatti lavori che riconoscono in particolare ai bisfosfonati una riduzione del rischio di morte nei soggetti trattati rispetto a quelli non trattati.
In sostanza questo studio evidenzia un’associazione (non una relazione causale) tra fratture non vertebrali/non femorali e mortalità. Questo risultato deve comunque far riflettere circa l’opportunità di un trattamento tempestivo dopo una frattura anche alla luce del dato epidemiologico che solo il 30% delle donne e il 10% degli uomini riceve una terapia farmacologica per l’osteoporosi dopo un evento da fragilità
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